Tradizioni: Maschere italiane della Commedia dell'Arte |
Cartina dell'Italia con le maschere italiane della Commedia dell'Arte |
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Maschere italiane della Commedia dell'Arte |
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1 - Arlecchino - Lombardia (Bergamo) | |
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2 - Brighella - Lombardia (Bergamo) | |
![]() 3
- Gioppino - Lombardia (Bergamo) |
![]() 4 - Meneghino - Lombardia (Milano) |
![]() 5/6 - Trappolino e Beltrame - Lombardia (Milano) |
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![]() 7
- Gianduia - Piemonte (Torino) |
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9 - Pantalone - Veneto (Venezia) |
![]() 10 - Rosaura - Veneto (Venezia) |
![]() 11 - Colombina (Corallina) - Veneto (Venezia) |
![]() 12 - Fracanapa - Veneto (Verona) |
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![]() 17 - Moretta - Veneto (Venezia) |
![]() 18 - Gnaga - Veneto (Venezia) |
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![]() 20 - Pescatore chioggiotto - Ve. (Chioggia) |
![]() 21 - Capitan Spaventa - Liguria (Genova) |
![]() 22 - Dott. Balanzone - Emilia-Romagna (Bologna) |
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![]() 25 - Mosciolino - Marche (Ancona) |
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![]() 26 - Bartoccio - Umbria (Perugia) |
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![]() 27
- Stenterello - Toscana (Firenze) |
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![]() 29 - Burlamacco - Toscana (Viareggio) |
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![]() 30
- Rugantino - Lazio (Roma) |
![]() 31 - Meo Patacca - Lazio (Roma) |
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32 - Pulcinella - Campania (Napoli) |
![]() 33
- Scaramuccia - Campania (Napoli) |
![]() 34
- Tartaglia - Campania (Napoli) |
![]() 35 - Farinella - Puglia (Putignano) |
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![]() 36 - Giangurgolo - Calabria |
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![]() 37
- Beppe Nappa - Sicilia (Sciacca) |
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![]() 39 - Colombina (anche sotto altri nomi o regioni) |
![]() 40 - Isabella |
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![]() 41 - La Cantatrice |
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![]() 42
- Il Farmacista |
![]() 43
- Il Notaio
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![]() 44 - Il Dottore (nomi differenti) |
1
- Arlecchino (Lombardia - Bergamo)
- È forse la più nota delle maschere, della Commedia dell'Arte, il
"secondo zanni", comunque tra le più famose
e popolare. Come Brighella, anche Arlecchino è di Bergamo ma della parte bassa della città.
Diversamente dal suo compaesano, mostra scarso intelletto ed è sciocco, credulone. Facchino, truffaldino per natura e di nome, è sempre affamato, nel senso più completo della parola, poiché l'attore che lo incarnava sulle scene spesso ne condivideva le amarezze di una vita grama. Goffo e sempre gabbato è posto, a livello sociale, un gradino più basso del suo fedelissimo amico-nemico e compagno di avventure Brighella. Il suo carattere è un insieme di astuzia, di coraggio e di poltroneria. E' il prototipo del servo furbo ed adulatore, sciocco, loquace, abile in ogni scherzo e raggiro alle spalle del padrone, in grado di conseguire risultati preclusi alla dignità degli altri personaggi della commedia dell'arte. Il nome deriva probabilmente da Hellequin, diavolo comico nelle rappresentazioni medioevali francesi. Il suo bizzarro vestito variopinto e di cento colori sarebbe dovuto al buon cuore dei suoi compagni: questi, in occasione del Carnevale, gli regalarono pezzi di stoffa dei loro abiti, affinchè anch'egli avesse un costume. Alcuni, sostengono che il suo abito derivi dal mimus centunculus romano. E' costituito da una giubba e pantaloni a toppe coloratissime ed irregolari, un berretto di feltro bianco col corredo di un pezzo di coda di coniglio o di volpe, una cintura da cui è legata una spatola di legno, normalmente usata per mescolare la polenta, che è chiamata "batocio". Sul viso porta una mezza maschera nera dai tratti demoniaci e felini, qualche volta munita di sopracciglia ispide e mustacchi. Il naso è camuso; completa il tutto un vistoso bernoccolo sulla fronte. Il suo caratteristico abito multicolore è stato indossato nelle scene per primo da Alberto Naselli, noto come Zan Ganassa, famosissimo in Spagna. Arlecchino moderno assai apprezzato è stato Marcello Moretti, interprete famoso del goldoniano "Arlecchino servitore di due padroni", al quale è succeduto l'altrettanto bravo Soleri. Parla un bergamasco arcaico, contaminato da detti gergali anche di altri dialetti. Arlecchino è una maschera acrobatica con una gestualità particolarmente complessa. Il suo modo di incedere è simile ad una vera e propria danza. Beffeggiato da tutti è, in verità, anche la maschera più contesa da varie nazioni. |
2
- Brighella (Lombardia - Bergamo) - Come Arlecchino, anche Brighella
è di Bergamo. E' Il servo furbo della Commedia dell'Arte o "primo zanni", nato nella Bergamo alta e perciò ben distinto da Arlecchino, servo sciocco e cialtrone, originario della parte bassa della città. Brighella Cavicchio da Val Brembana è il suo nome per esteso. L'etimologia è forse da ricercarsi in "briga" o "brigare", ossia "imbrogliare", una delle sue caratteristiche peculiari. Intrigante, avido e astuto è il servo che vive d'espedienti, in cerca di avventure, pronto a ordire intrighi, il ruffiano pronto ad assecondare anche i desideri più bassi del suo padrone e con la stessa solerzia gli volge le spalle nel momento del bisogno e del pericolo. Non ha scrupoli e si adatta a qualsiasi mestiere. Lo ritroviamo nei panni dell'oste, del sergente, del primo domestico o del ladro patentato. Il suo costume, che con alcune strisce verdi su un camice bianco ricorda vagamente una livrea stilizzata, è in tutto simile a quello degli "zanni", i servitori della Commedia dell'Arte, suoi diretti progenitori. A volte porta pure un mantello e un curioso copricapo listato in verde. La maschera è nera o di un verde olivastro, arricchita, secondo il gusto degli attori, con altri colori. I baffi costituiscono un utile complemento al personaggio. Parla un dialetto misto bresciano e bergamasco. Canta accompagnandosi con la chitarra ottimamente: è un tipo faceto. Il Goldoni lo fa talvolta agire come servo fedele ed altruista. La sua fortuna fu in parte eclissata da Arlecchino, che seppe conquistarsi maggiormente i favori del pubblico e tutta la sua simpatia e questo perché, come vuole il proverbio, gli stolti scrivono il loro nome in ogni luogo. |
3 - Gioppino (Lombardia - Bergamo) - Maschera bergamasca (detto in dialettoGiopì): contadino semplice della campagna bergamasca, nativo di Zanica, di rustica bonarietà, all’occasione lesto di mano; sua caratteristica: tre gozzi; porta un largo cappello di feltro, parrucca nera con codino volto all’insù, corta giubba verde o marrone anche celeste, panciotto colorato, calzoni corti, calze bianche e rosse, scarponi; suo attributo costante è il bastone per rimestare la polenta. Nella parlata bergamasca il nome di Gioppino appare spesso come sinonimo di “pazzerellone”, “burlone”. Nel Risorgimento, come burattino, fu portato per le vie e le piazze di Lombardia da P. Strabelli, e appuntò la sua satira, con frizzi e allusioni coraggiose, contro l’odiata dominazione austriaca. |
4
- Meneghino (Lombardia - Milano)
- Caratteristica maschera, nata alla fine del Seicento. Ha il tricorno marrone, la parrucca con codino, la giacca pure marrone filettata di rosso, i calzoni corti verdi e le calze bianche o a righe rosse e bianche o colorate. Il nome è diminutivo di Domenico («Domeneghin»). Personifica il popolano milanese, con le sue virtù e con i suoi difetti. È un servo facile ai motti aspri e taglienti e pronto alla risposta arguta. Stralcio dal Corso di Storia delle Tradizioni Popolari tenuto dal Prof. Dr. Vincenzo De Rosa alla Unitre Milano - anno acc. 1999/2000: Meneghino, maschera tradizionale milanese, il cui nome deriva da una categoria di servi che la domenica pare accompagnassero i signori in chiesa e/o alla passeggiata, a piedi o in carrozza (da un'aneddotica milanese, pare che questi servi dovessero accompagnarli sempre e solo a piedi). Meneghino la personificazione del servo non coraggioso ma fedele, disponibile e dotato di buon senso. Come figura, viene introdotto nel teatro verso la fine del Seicento da Carlo Maria Maggi con una fisionomia ben definita del servo sentenzioso ma di intuito vivace, dal punto di vista del costume, veste un costume settecentesco. Nella prima metà dell'Ottocento ha trovato eccezionali interpreti, soprattutto in un grande attore milanese, Giuseppe Moncalvo, che ebbe il merito di nobilitare l'antica maschera cercando di sottrarla agli schemi della farsa e darle ulteriori contenuti che la caratterizzassero in maniera sempre più positiva. Anche il grande Carlo Porta contribuì a dare una nuova forza letteraria al personaggio offrendogli uno spirito arguto e vivacissimo che faceva venir fuori, alla fine, una comicità irresistibile. Un'annotazione storica importante: durante il Risorgimento la maschera di Meneghino, alla pari di un'altra maschera di un'altra regione (Pulcinella, napoletano), assunse il significato simbolico di libertà e di indipendenza, perché, in molte rappresentazioni, gli si mettevano in bocca discorsi seri, che erano un continuo d'intolleranza, di dignitoso disprezzo per la dominazione straniera. La regia-imperial polizia austriaca non aveva, e non riusciva a comprendere, gli estremi per arrestare o carcerare una maschera, la maschera poi di un servo ignorante, stupidotto, sentenzioso, che di per sé non era ritenuto pericoloso. Maschera che però aveva un suo compito, quello di trasmettere messaggi ai patrioti risorgimentali. Nei primi anni del Novecento, la maschera fu relegata nel teatro delle marionette dove, ancora oggi, almeno fino a poco tempo fa, continuava a divertire i bambini con un suo linguaggio schietto, ricco sempre di frizzi, di sentenze e di sciocchezze che fanno ridere. Comunque Meneghino ha dato il nome (e resta proverbiale) al "popolano" milanese, con tutte le caratteristiche, dalle più positive a quelle negative. |
5/6 - Trappolino
e Beltrame (Lombardia - Milano) - Trappolino è uno degli Zanni più famosi, citato nei versi del Raparini come una fra innumerevoli varianti di Arlecchino, di cui ha tutte le caratteristiche. Beltrame è invece, una derivazione del più noto Brighella. |
7 - Gianduia (Piemonte
- Torino) - Nel 1808 fu chiamato, da G. B. Sales, «Gironi» e poi «Gioân 'd la duja» giacché nel primitivo nome, portato da Gerolamo Bonaparte, si volle vedere una allusione politica; infine fu ribattezzato dal popolo, Gianduia. Ha in testa il tricorno e la parrucca con codino. Veste un costume di panno color marrone bordato di rosso, con il panciotto giallo e le calze rosse. È un galantuomo, cui piacciono il vino, l'allegria e l'arguzia paesana; è veramente il tipo del buon piemontese pieno di buon senso e di coraggio. Giacometta è la sua fedele compagna. Gianduia prima burattino e poi marionetta, originario dell'Astigiano, trasferito a Torino ne divenne il simbolo e impersonò la passione patriottica durante le guerre di indipendenza. |
8 - Giacometta (Piemonte - Torino) - È la fedele compagna
di Gianduia. Come Gianduia è veramente il tipo del buon piemontese
pieno di buon senso e di coraggio, così Giacometta non è da meno ed unisce alla naturale grazia del gestire e del parlare un brio ed una vivacità maliziosamente femminile. Sa essere dolce ed appassionata, ma, quando occorre, sa anche difendere i suoi diritti con arguzia e con veemente irruenza. Recita accanto al suo sposo, sia sul palcoscenico del Teatro normale, sia nel Teatro dei burattini. |
9
- Pantalone (Veneto - Venezia) - Tipica maschera veneziana, la più conosciuta,
comparsa nel Cinquecento. Sulla sua origine non esistono dubbi, poiché, fin dalla sua prima apparizione nelle compagnie della Commedia dell'Arte, il "primo vecchio", chiamato il "Magnifico", si esprimeva nella schietta e musicale parlata veneziana. Quel nome presto decade per lasciare il posto all'immortale Pantalone. Numerose sono le interpretazioni sull'origine del nome. Si dice che il nome derivi da San Pantaleone, uno dei santi venerati nella città, a cui è pure intitolata una chiesa. Altra possibile derivazione da "piantaleonì", nome con cui venivano designati i mercanti che aprivano i loro banchi nelle terre conquistate e "piantavano" simbolicamente il leone di San Marco allargando col commercio la potenza della città. La professione di mercante è infatti indissolubilmente collegata al personaggio. Altri affermano che il termine è ancora più antico e si deve ricercare in un'espressione greca significante: "potente in tutte le cose". Rappresenta il tipo del vecchio mercante ricco e brontolone, stimato, a volte completamente in rovina (Pantalon de' Bisognosi), pedante, non sempre accorto, avaro, incontentabile, testardo che non disdegna le avventure galanti, spesso innamorato, geloso e senza fortuna, facile preda dei raggiri dei suoi servi e delle donne che corteggia. Mostra una grande vitalità sia negli affari che nel risolvere con energia e cognizione di causa i problemi familiari. Il suo linguaggio, a volte duro e licenzioso, si ingentilisce talvolta in forme bonarie e paciose assumendo la connotazione del "burbero benefico" goldoniano. Con il Goldoni, infatti, la figura si umanizza, gli eccessi del carattere sono attuenuati e spesso il suo denaro può rimediare alle intemperanze della giovane generazione. Il costume è costituito da un berretto di lana alla greca, una giubba rossa e calzabrache o brache corte alla marinaresca, non sempre, con una cintura, talvolta, da cui pendono o una spada o un fazzoletto o una borsa. Indossa un mantello nero, spesso foderato di rosso, e ai piedi calza delle ciabatte nere, spesso babbucce, color giallo, alla turca con le punte rivolte verso l'alto. È caratteristica la sua maschera nera con naso adunco, sopracciglia accentuate e una curiosa barbetta a pizzo, che abitualmente accarezza dolcemente con le mani. |
10
- Rosaura (Veneto -
Venezia) - È una maschera di origine veneziana e celebre personaggio della Commedia dell'Arte. Figlia di Pantalone, vive con lui in un sontuoso palazzo sul Canal Grande, è innamorata del giovane Florindo ma la relazione tra i due è ostacolata da Pantalone. Rosaura ha però come complice la cameriera Colombina che l'aiuta a frequentare il giovane amato. Chiacchierona, vivace irascibile, gelosa e vanitosa, Rosaura viene descritta con lunghi capelli biondi e vestita con un abito azzurro con nastri rosa decorati. Essa ha delle scarpine rosse con anche sopra un fiocco nero. |
11
- Colombina (Veneto -
Venezia) - È una simpaticissima maschera veneziana, chiamata anche Corallina. E' allegra e mordace, civetta e furba, pungente e maliziosa,
spensierata e chiaccherina. Pronta a prendere in giro le persone che le
stanno intorno, è sempre incline a farsi beffe di loro. La più famosa interprete di Colombina fu Caterina Biancolelli (sec. XVII), figlia dell'Arlecchino Domenico. Il Goldoni fece l'apoteosi di Colombina ne «La serva amorosa». Fonti:
libro "Maschere Veneziane e della commedia dell'arte"
- Arsenale Editore - S. Giov. Lupatoto VR - 2012 e altre |
12
- Fracanapa (Veneto -
Verona) - Nata nei primi dell’800 come marionetta, la maschera appartiene alla schiera dei vecchi della Commedia dell'Arte ed è originaria di Verona (dove corrisponderebbe a Frà Canàpa, un frate piuttosto grosso, caratterizzato da un grande naso la "cànapa" appunto). A volte servo altre padrone, a volte ricco altre povero, stolto oppure furbo, Facanapa è un tipo bonario e arguto, caratterizzato da un buon carattere gioviale, da un ottimo appetito e da un amore ancora migliore per il vino e la buona tavola. Nell'aspetto egli appare sempre piuttosto curato, con una marsina scura e attillata, un panciotto rosso, pantaloni al ginocchio e un nero tricorno in testa. Altre volte appare con marsina grigio viola, panciotto e pantaloni al ginocchio in tinta oliva, fiocco al collo blu, cappello e scarpe in tinta marrone, calze bianche. Caratteristico era anche il suo modo di parlare a scatti, scandendo le sillabe e storpiando alcune lettere, allo scopo di ottenere effetti comici. La sua fama è dovuta tuttavia al marionettista Antonio Reccardini (1804-1876) che lo portò in scena nei primi anni dell'Ottocento. |
13 - La Bauta (Veneto -
Venezia) - Maschera veneziana. Il costume è costituito da una mantellina nera
con cappuccio su cui si portava il tricorno mentre il volto veniva coperto
da una caratteristica mascherina bianca o nera, divenne comunissimo nel sec. XVIII, fino a divenire un abito da passeggio in tutti i periodi dell'anno. Stralcio dal Corso di Storia delle Tradizioni Popolari tenuto dal Prof. Dr. Vincenzo De Rosa alla Unitre Milano - anno accademico 1999/2000: La Bautta o Bauta, maschera veneziana atipica; essenzialmente realtà settecentesca ma arrivata fino ai nostri giorni, sempre presente ma scarsamente conosciuta (soprattutto fuori Venezia). Maschera estremamente ambigua, quasi androgina, essendo all'origine asessuata, nasce da una sorta di contaminazione del costume femminile con quello maschile. Sopra un morbido mantello, fatto di merletti neri, di tipo femmineo ("Zendaletto") che sin dai tempi più antichi serviva alle donne veneziane per coprire il capo e scendeva sulle spalle fino a coprire i fianchi, viene indossato un pesante "Tabarro" maschile e in testa il maschile cappello a tricorno. Realtà essenzialmente settecentesca non documentata da nessun'altra parte fuori Venezia, la "Bauta" sarebbe una parente strettissima della gondola per il colore nero e, come la gondola, ha origini anomale e impossibili da attribuire ad un "autore". In tutta la letteratura esistente sull'argomento e in tutta l'iconografia si parla e si intravedono costantemente tra le masse queste silhouettes nere e svolazzanti con una macchia bianca: il volto, ovvero la maschera che cela il volto e tuttavia diventa e viene chiamata volto. Non si possono non citare due grandi artisti del Settecento, Pietro Longhi e Francesco Guardi, che le hanno immortalate nelle loro opere, nonché alcuni letterati e registi, nostri contemporanei, che ce le hanno riproposte. Quella silhouette e quel volto che, a sua volta, per una sorta di metonimìa (figura retorica che consiste nello spostamento di significato di un termine per indicare il contenente per il contenuto, l'effetto per la causa, la parte per il tutto, ecc.) diventa la "Bauta" per indicare l'intero travestimento. Un volto particolare dal labbro superiore allargato e sporgente, sotto un naso minuto, appena accennato, che maschera e altera anche il timbro di voce, rendendolo quasi metallico. La "Bauta" somiglia a nessun'altra maschera, è una copia di qualcosa di cui non si trova in nessun luogo l'originale (in Estetica equivale al significato di simulacro). Le maschere della Commedia dell'Arte e le altre maschere tradizionali, nella loro riproduzione, imitano un preciso modello: il vecchio, il servo, la bella donna, il capitano di ventura, ecc. Esse sono definite dai caratteri distintivi della loro funzione, che non si determina da sola, ma all'interno del sistema delle maschere: un piccolo mondo in cui si intrecciano il vecchio e il giovane, l'ordinario e lo straordinario, il quotidiano e l'esotico, l'uno accanto all'altro, l'uno opposto all'altro e cercano di convogliare questi contenuti (antitetici) verso un possibile lieto fine. La "Bauta" invece in questo suo ripetersi non ha un modello vivente e non si sa neanche dove lo si possa trovare; riproduce se stessa quasi come alla ricerca di un vuoto di identità, come mascheramento finalizzato esclusivamente al mantenimento dell'incognito che, se è implicito in ogni altra maschera, qui è esplicitato invece dalla sua funzione e dal sua significato misterioso e negativo. Nell'immaginario della gente e nell'uso che se ne è fatto, questo travestimento ha sempre avuto caratteristiche ambigue, oscure, magiche, suscitando sentimenti antitetici di riguardo timoroso o di morbose aspettative e comunque sempre nella dimensione dell'Incognito, comunque con finalità trasgressive come: sesso, gioco d'azzardo e, in alcuni casi, violenze o vendette verso persone. La possibilità di frequentare case di piacere o bische per un divertimento audace, estremo, senza limite; rapporti sessuali occasionali, anonimi, senza complicazioni di qualsiasi tipo, di classe, di censo, di coinvolgimenti sentimentali. Salvacondotto per l'Aristocrazia che poteva consentirsi comportamenti che, senza il travestimento con la "Bauta", non avrebbe mai potuto avere: sesso di gruppo, rapporti etero-omosessuali, perversioni di ogni tipo, incontri con persone altrimenti mai raggiungibili. Altrettanto dicasi per il popolo minuto: al gondoliere, al carpentiere, allo scaricatore dei mercati, allo stesso servitore, poteva capitare, nelle vesti di una di quelle signore che si dichiarava "donna...de...garbo", un'aristocratica di altissimo rango (addirittura la propria padrona), alla ricerca di emozioni forti e occasionali. In conclusione, maschera apparentemente aristocratica, nella sua uniformità sconcertante, nel suo armamentario bianco e nero, quasi spettrale, nel suo magnetismo enigmatico, ha sempre avuto ed ha un potere sconvolgente di suggestione nella fantasia della gente comune, ma anche di grande autosuggestione per chi la indossa. Questo è comprensibile so solo da colui che l'ha effettivamente indossata. Nel suo carattere indefinito la"Bauta" è il contributo più originale e forse più continuo, dal punto di vista iconografico, che Venezia abbia offerto alla civiltà dell'immagine "fascinosa". Da essa, maschera antica e moderna, senza limiti di tempo, discenderanno le maschere della post-modernità di Fulvio Roiter nei carnevali degli anni Ottanta. Maschere sgargianti, rilucenti, ma di materiali certamente non ricchi, come quelli di un tempo: raso o tulle di plastica argentata e fluorescente. Come essa, le maschere di Roiter non ci riportano ad un personaggio, ad un modello, a un tipo o a uno dei due sessi, ma solo alla velleità di essere invenzione della fantasia. Come essa, le maschere di oggi, vittime anche loro di un grosso equivoco consumistico, fanno pensare a una molteplicità di cose, alludono a tante cose o a qualcosa, ma non si sa a che; se non forse a quell'orizzonte ambiguo, sospeso tra passato e presente, tra acqua e terra, come il paesaggio veneziano, con il suo fascino resistente all'usura del tempo e della banalità. Stralcio dal libro "Maschere Veneziane e della commedia dell'arte" - Arsenale Editore - S. Giov. Lupatoto VR - 2012 Maschera "nobile" o "maschera nazionale" della Serenissima, la bauta è il travestimento veneziano per eccellenza ed il più originale e tipico costume cittadino. Viene così descritta nelle cronache del tempo: «Era vesta da maschera, e si componeva di un ferraiolo nero di seta, e di un mantellino, o roccetto di pizzo serico, parimenti nero, che partendo dal capo, sopra il quale si poneva il tricuspide cappello, scendeva sulle spalle, coprendo la metà della persona; questo mantellino era giustamente la Bauta, chiamandosi l'insieme dell'abbigliamento Maschera di tabarro e bauta. Usavasi pure una faccia finta, nera, o rilucente per nitore e bianchezza... Manca ogni memoria circa il tempo dell'origine sua, che però, formando parte di detta Bauta il tabarro e il tricuspide cappello, non dev'essere di molto rimota». Molto discordi risultano fra loro le ipotesi etimologiche: alcuni studiosi fanno derivare il termine dal verbo tedesco "behuten" che significa proteggere, preservare, difendere. Altri trovano delle affinità con "bacucco" e "baucco". Ma c'è chi fa derivare il termine da "bau", "non voce, ma maschera che fa paura ai bambini". Non ultima l'etimologia che viene fatta derivare da bava intesa come bavaglio, vicina alla voce piemontese "bavera", maschera del viso. Ma troviamo tutti i commentatori dell'epoca d'accordo nel modo di intendere la bauta come "la maschera che ogni disuguaglianza agguaglia": era infatti portata indistintamente da uomini e donne. Capitava così che, essendo medesima la foggia dell'abito, i delatori più perfidi, la nobiltà più insigne, la plebe più vile, le cortigiane più depravate, il doge, gli Inquisitori di Stato, e principi stranieri si trovassero accomunati ed eguali, sicuri da ogni insulto ed offesa, grazie alla speciale tutela e garanzia di cui godeva la bauta anche nei confronti della legge. Non bisogna poi trascurare il fatto che essa aggiungeva grazia alla femminilità, permetteva di celare costosi abiti e gioielli, vietati dalle "severe" leggi contro il lusso, oppure, tra le trine del merletto a punto Burano, faceva maliziosamente intravedere segrete forme procaci. La bauta era di casa alle feste, nei teatri, nei caffè, negli incontri amorosi, era concessa anche in periodi al di fuori del carnevale: insomma era un capo di abbigliamento per tutte le stagioni, elegante protagonista di ogni importante avventura veneziana. |
14
- Larva o volto (Veneto
- Venezia) - La larva o volto era
una maschera bianca che si accompagnava sempre alla classica bauta. Esisteva
pure in versione nera, ma con un uso assai limitato. Il suo nome è
facilmente riconducibile ad un etimo latino, infatti con la voce "larva"
venivano indicati i fantasmi e le maschere di natura spettrale, caratteristica
questa, mantenuta anche dopo tanti secoli e che ben si addice al lugubre effetto che continua a produrre in noi. Veramente spettrali dovevano sembrare al chiaro di luna, in una città illuminata solo dalla tremula fiammella del lanternine di un "codega", i veneziani che rientravano a casa dopo una notte di bagordi trascorsa a teatro, in una bottega da caffè o tra i tavoli da gioco di qualche casino patrizio. Sorretti dal solo tricorno, che quindi non si toglieva mai dal capo, i volti erano, come la bauta, usati indistintamente da uomini e donne e, grazie alla loro forma particolare, permettevano di bere, mangiare e respirare agevolmente, serbando l'incognito e facendo talvolta stizzire i curiosi incaponiti e affamati di "ciacole". Stralcio dal libro "Maschere Veneziane e della commedia dell'arte" - Arsenale Editore - S. Giov. Lupatoto VR - 2012 |
15 - Mattaccino
(Veneto -
Venezia) -
Si fa menzione di questa maschera fin dal 1268, prima legge sulle maschere, quando viene proibita per limitare i danni arrecati da giovani patrizi veneziani che si divertivano a bersagliare le nobildonne con gusci di uova riempiti d'acqua di rose e ....d'altro! Sì vuole che il nome derivi dalle allegre "mattinate" che i giovani patrizi buontemponi trascorrevano abbigliati all'uso di pagliacci, lanciando, con una frombola, uova riempite di acqua di rose verso le dame che passeggiavano. L'abito indossato era leggero e permetteva agili movimenti, arricchito talvolta dalla gorgiera (come possiamo rilevare dalle incisioni dell'epoca e da un acquerello del Grevembroch). Attorno ai mattaccini folto era il nugolo dei venditori di uova, anch'essi vestiti in modo bizzarro, somiglianti - a causa del loro strano copricapo - a piccoli diavoli tentatori. Questo gioco cosiddetto "gioco delle ova", divenne così comune che il governo, dopo essere intervenuto a più riprese senza alcun effetto, ritenne opportuno proteggere il passaggio delle dame stendendo lungo le procuratie delle reti, per così evitare alle signore in passerella di imbrattare le ricche vesti. Anche i balconi delle donne amate divennero oggetto di singolari serenate che spesso si concludevano in vere e proprie battaglie. Naturalmente non erano esclusi i colpi bassi e a farne le spese erano le megere, le vecchie balie o le madri poco accondiscendenti, a cui gli esperti frombolieri riservavano un altro tipo di uova dall'odore intenso, ma molto più mefitico. Fonti: libro "Maschere Veneziane e della commedia dell'arte" - Arsenale Editore - S. Giov. Lupatoto VR - 2012 e altre |
16
- Maschera in domino (Veneto - Venezia) - Il
domino costituiva un'elegante variante alla veneziana bauta, tipico travestimento carnevalesco a cappa. Nella seconda metà del XVI secolo furono i francesi per primi ad attribuire questo nome al cappuccio usato dai monaci, divenuto, per capriccio della moda, un abito assai comune. Discorde con questa origine dell'abito è la spiegazione politico-religiosa che vede in quel particolare capo di abbigliamento un atto di irriverenza nei confronti della Chiesa cattolica da parte inglese, quando questa nazione decise di entrare in netto contrasto col papa. L'origine del termine si deve ad un'espressione latina di natura ecclesiastica: benedicamus Domino (benediciamo il Signore) che ritornò in Italia attraverso la mediazione dei francesi. Stralcio dal libro "Maschere Veneziane e della commedia dell'arte" - Arsenale Editore - S. Giov. Lupatoto VR - 2012 |
17
- Moretta (Veneto - Venezia) - L'ovale di velluto nero, che porta il nome
di moretta era apprezzato sia dalle donne di nobile nascita che da quelle
di più modesta condizione. Naturalmente esaltava di più il colore dei capelli biondi, quel biondo veneziano, orgoglio delle donne d'ogni rango. Cosa assai strana, questa gentile mascherina pare fosse la preferita di molti uomini, solitamente molto critici nei confronti dei capricci della moda femminile. Il perché ce lo rivela uno scritto di Boerio: dell'epoca: «[La moretta] sta attaccata alla faccia mediante il tener in bocca un bottoncino che v'è nel sito in cui dovrebbe essere l'apertura della bocca». Una maschera che costringe a non parlare, dunque, e che per la moda del tempo era tollerata dal gentil sesso. La moretta fece la sua comparsa, come attestano diversi dipinti, anche fra i "casotti" che a carnevale custodivano i capricci di madre natura o le meraviglie portate a Venezia dal Nuovo Mondo. Capitava così che, accanto a nani, giganti e straordinari automi, sfilassero davanti ad occhi increduli rinoceronti, elefanti, leoni ed altri animali esotici. Stralcio dal libro "Maschere Veneziane e della commedia dell'arte" - Arsenale Editore - S. Giov. Lupatoto VR - 2012 |
18
- Gnaga (Veneto - Venezia) - II carnevale offriva l'occasione anche
di rivelare la propria natura, solitamente mascherata durante l'anno.
Ad approfittarne erano molti giovani segnalati agli Inquisitori di Stato dai vigili "occhi" della Serenissima per la loro omosessualità. Comportamento quest'ultimo assai diffuso che i governanti attribuivano all'influenza di altri popoli, in modo particolare ai turchi, che a Venezia andavano famosi per questo "vizietto". Oltre a questi, però, c'erano anche tanti buontemponi che trovavano nel travestirsi da donna un divertimento incredibile. Le gnaghe veneziane erano appunto un misto degli uni e degli altri con qualche tocco di volgarità in più. Alcuni vogliono che gnaga derivi da "gnau", il verso del gatto. Nella lingua veneziana esisteva un modo di dire: "aver una ose da gnaga", che il Boerio spiega in questi termini: «diremmo, s'è femmina, aver una voce di strigolo o di gatto scorticato; e s'è uomo, avere una vociacela o voce di cornacchia o una voce di chioccia o di donna». Per dare maggior colore alla loro interpretazione, le gnaghe si accompagnavano ad altri amici vestiti da "tati" o "tate", termini dialettali indicanti i neonati, o i bambini molto piccoli, non ancora in grado di esprimersi e, giocando su goffe e dozzinali espressioni, giravano per la città importunando i passanti. Stralcio dal libro "Maschere Veneziane e della commedia dell'arte" - Arsenale Editore - S. Giov. Lupatoto VR - 2012 |
19 - Il Medico della Peste (Veneto -
Venezia) - Maschera veneziana. Le epidemie di peste, nelle tragiche e più o meno frequenti ricorrenze, mietevano vittime a migliaia. Questo curioso abbigliamento, prima ancora che maschera, era considerato dai medici un'indispensabile precauzione. L'origine del costume è francese, l'ideatore un medico del XVI secolo: Charles de Lorme. La peste a Venezia era una tragica consuetudine, che ciclicamente ritornava a mietere le sue vittime. Solo due erano i metodi allora conosciuti per scongiurarne i malefici effetti: l'edificazione di templi votivi (Redentore e Madonna della Salute) e l'organizzazione sanitaria, ancora assai fragile a causa delle scarse conoscenze mediche. Fin dal secolo XIV i trattati sulla peste raccomandavano abbigliamenti particolari ai medici che si esponevano al pericoloso contagio. Il medico veneziano Troilo Lancetta, testimone della tragica pestilenza del 1630, ricorda che alcuni medici indossavano un "abito peculiare": la tunica era di lino o di tela cerata, al fine di impedire che i miasmi infettanti si depositassero sull'abito del dispensatore di salvezza. La bacchetta serviva a sollevare le coltri senza entrare in diretto contatto con oggetti e corpi malsani. Ulteriori protezioni erano il cappello e gli occhiali e quel becco adunco, riempito di essenze medicamentose e disinfettanti, che trasformava l'operatore sanitario in un lugubre uccello, paragonabile agli antichi stregoni che fanno propria la bruttezza del male da allontanare. Non si tratta dunque di un abito carnevalesco, ma del simbolo terrificante di un morbo molto ricorrente in una città di traffici marittimi. Il carnevale recupera questo simbolo spaventoso di morte, per alleviare la coscienza di una così tragica realtà e finiva per avere la funzione di esorcizzare, con il riso, dolore e morte. Fonti: libro "Maschere Veneziane e della commedia dell'arte" - Arsenale Editore - S. Giov. Lupatoto VR - 2012 e altre |
20
- Pescatore chioggiotto (Veneto - Chioggia)
- Fu il celebre commediografo Carlo Goldoni che rese celebre la litigiosità degli abitanti della bella e ricca Chioggia. Testimone di numerosi episodi di vita quotidiana che traspose nella commedia "Le baruffe chiozzotte", la sua opera incontrò presto il successo pur riservandogli la dannazione eterna per le maledizioni dei chioggiotti messi alla berlina. Eppure il commediografo aveva seccamente ribadito che questa era solo la pura verità nella prefazione all'opera: «Queste baruffe sono comuni fra il popolo minuto, e abbondano a Chiozza più che altrove; poiché di sessantamila abitanti di quel Paese ve ne sono almeno cinquantamila di estrazione povera e bassa, tutti per lo più pescatori o gente di marina». Nel 1791, circa trent'anni dopo la prima rappresentazione della commedia, quando Goldoni risiedeva ormai da tempo in Francia, a Venezia alcuni chioggiotti formarono una loro compagnia e, mascherati da pescatori, approdarono coi loro colorati bragozzi presso il Ponte della Paglia e inscenarono per scherzo la baruffa che li aveva resi famosi in tutto il mondo. Una riabilitazione, dunque, dello "scomunicato" Goldoni? Forse era solo una riscoperta della propria natura sanguigna, ma anche, dopo il bollore improvviso, il ritorno alle dimensioni paciose e bonarie di tutti i giorni. Stralcio dal libro "Maschere Veneziane e della commedia dell'arte" - Arsenale Editore - S. Giov. Lupatoto VR - 2012 |
21 - Capitan
Spaventa (Liguria - Genova) - Maschera
del XV secolo, è una caricatura degli ufficiali di quel tempo e di ogni vanagloria militare. Il vestito a strisce colorate è completato da un cappello a larghe tese adorno di piume. Porta una spada interminabile, trascinata rumorosamente. Ha lunghi baffi ed un naso spaventevole. E' uno spadaccino temerario, che combatte più con la lingua che con la spada. |
22 - Dott. Balanzone (Emilia-Romagna - Bologna) - Classica maschera bolognese. Pedante e noioso, rappresenta il principe del foro, pieno di paroloni e di sproloqui; è famoso per le sue arringhe assurde; parla in dialetto con citazioni latine errate, pronunciate con assoluta serietà. Personaggio comico originario della "grassa e dotta" Bologna. Saccente, dottore soltanto di nome, a volte medico, altre notaio o avvocato, frutto sicuramente dell'invenzione goliardica che lo ha partorito sulle scene di qualche farsesca rappresentazione, trova in Bologna, città universitaria e di antiche tradizioni, la madrina ideale. Il dottore è, come tutti i bolognesi, una buona forchetta. Quando viene chiamato in causa si trincera dietro il suo vano "latinorum", frammisto ad intercalari dialettali anche di altre città o di citazioni iperboliche non sempre azzeccate. Vano è qualsiasi tentativo di interromperlo quando parla. Indossa la toga con collare bianco alla spagnola ed ha un cappello nero a larghe falde. Veste alla foggia dei dottori. Sul volto porta una mezza maschera nera che mette in risalto il naso carnoso e qualche ridicolo porro, caratteristica ampiamente sfruttata dai commediografi. L'obesità è la sua caratteristica fìsica peculiare e la comicità gioca appunto sulla staticità e pesantezza del personaggio. Questa maschera bolognese ha nomi differenti: dottor Balanzone, Balordo o Graziano. Secondo alcuni studiosi, quest'ultimo nome gli deriverebbe da quello dell'omonimo giurista medievale famoso per i suoi sproloqui. |
23 - Fagiolino (Emilia-Romagna - Bologna) - Maschera bolognese per eccellenza, Fagiolino proviene dal sottoproletariato e dalla periferia urbana, che si muove soltanto nel casotto dei burattini e non conosce vita sul palcoscenico delle marionette. Ha un nome e un “cognome”, Fagiolino Fanfani. È' sempre pronto a prendere a bastonate chi se lo merita ed è alla continua ricerca di denaro e fortuna che lo portano a vivere mille avventure. Il personaggio di Fagiolino trae origine da un burattino e diviene in seguito famoso nella Commedia dell’Arte ricordando anche lui il celebre Zanni. Maschera attiva a Bologna ad opera del burattinaio Cavazza e che raggiunge una popolarità maggiore con Filippo Cuccoli e col figlio Angelo. Rappresenta il monello dei bassifondi della Bologna ottocentesca, sempre affamato, sporco e lacero. ll nome può derivare da “faggio” (il legno del suo bastone) o da “fagiolo“, il legume troppo spesso presente sulle mense povere del popolo. Isabella è sua moglie che lui chiama, con affettuosa insolenza,”Brisabella” (non bella in vernacolo petroniano). Fagiolino ha un berretto da notte, indossa una corta giacca, ha la camicia a mo' di panciotto e calze bianche a righe rosse. |
24 - Sandrone (Emilia-Romagna - Modena) - Maschera emiliana che copre i capelli con un berretto
di lana rossa. Porta la giubba viola, il panciotto bianco con pallini, i calzoni corti
fino al ginocchio, le calze rigate. Ha il faccione color del vino, di cui è molto amico; caratteristico tipo del contadino ignorante, ma pieno di buon senso e di furberia; talvolta è falso e bastonatore a diritto o a torto. |
25 - Mosciolino (Marche - Ancona) - È la maschera del carnevale anconetano. Disegnata nel 1999 dall’illustratore Andrea Goroni, la maschera prende il nome dal "mosciolo", nome locale del mitilo, la cozza. Mosciolino era un ragazzo senza famiglia ed era chiamato così perché lo si vedeva sempre nei pressi del mare e perché spesso si sfamava con i moscioli. I suoi vestiti erano sbiaditi dal sole e qualche pezzo di rete e qualche guscio di mosciolo spesso rimanevano tra le tasche e le cuciture. I suoi capelli, pieni di sale erano diventati durissimi, e se si guardava bene, tra le ciocche c'era sempre qualche alga. Un giorno mentre era sulla spiaggia sentì un gran chiasso provenire dalla città: musica, risate, trombette e urla di allegria. Incuriosito volle andare a vedere. Si festeggiava il Carnevale, e tutti erano in maschera. Lui si nascose per osservare senza essere visto. Era stata indetta una gara per la mascherina più bella, ma ancora non si era riusciti a trovare una maschera degna della vittoria. Mosciolino osservava tutto incuriosito quando vide un carro che gli sembrò meraviglioso: riproduceva, con grandi figure di cartapesta, Nettuno, re del mare, con un grande tridente e con tutto il corteo. Senza pensarci uscì dal suo nascondiglio per seguire il carro di Nettuno. Così lo videro e rimasero tutti a bocca aperta: non si era mai vista una maschera così bella e fantasiosa. Quando Mosciolino si accorse di essere stato scoperto, si spaventò, ma ormai era troppo tardi, perché lo stavano trascinando verso il palco. Le persone intorno lo tranquillizzarono spiegandogli che aveva vinto un premio per la sua bella maschera. Mosciolino scoppiò a ridere e disse che la sua non era una maschera, ma il suo vestito normale. Vollero premiarlo ugualmente, ma Mosciolino non volle il premio previsto, chiedendo invece di poter fare un giro sul carro di Nettuno. Lo accontentarono volentieri. Così Mosciolino salì sul carro di Nettuno e girò tutta la città. La gente vedendolo passare lo ammirava e gridava: “è nata una nuova maschera!" |
26 - Bartoccio (Umbria - Perugia) - Maschera perugina, tipica del carnevale umbro, il cui nome deriva forse da Bartolomeo, nacque nel 1650, a testimoniare una nuova figura dello scenario contadino: il colono, contadino benestante. Si presentava quasi sempre vestito con un gilet rosso porpora sotto una giacca verde, calzoni di velluto (neri o marroni) e scarpe eleganti ma non disdegnava altri abbinamenti. Poteva sembrare il classico contadino un po’ rozzo e caciarone (come si dice a Perugia), ma dietro a quel sorrisetto da simpaticone nascondeva la sua fine intelligenza e saggezza. Le vivaci vicende familiari di cui il Bartoccio è protagonista insieme alla moglie Rosa, la figlia Suntina ed il compare di ventura Mencarone si intrecciano con la storia della città di Perugia ed è così che nascono le “Bartocciate” composizioni dialettali scritte su libelli anonimi di contenuto sociale. Il Bartoccio durante il carnevale cantava i fatti di cronaca locale e per l’occasione lanciava messaggi satirici alla classe politica perugina dell’epoca. Con il passare degli anni la maschera di Perugia è divenuta sempre più famosa, soprattuutto per il suggestivo ricordo dei personaggi popolari e per la memoria delle antiche tradizioni, tanto da diventare uno degli emblemi della Città. |
27 - Stenterello (Toscana - Firenze) - Maschera della seconda metà
del secolo XVIII; fu chiamato Stenterello per la figura esile, cresciuta
a stento. È un tipo ghiottone, scansafatiche, pavido, sciocco, perseguitato
dai creditori e dalla sventura. Il costume prevede: una specie di cappello a barchetta con parrucca e codino, giubba lunga di panno azzurro, panciotto giallo a piselli, calzoni corti e neri, una calza rossa e l'altra rigata di bianco-azzurro. |
28 - Cassandro (Toscana - Siena) - La maschera è nata dalla penna e dall’estro |
29 - Burlamacco (Toscana - Viareggio) - È la maschera ufficiale del celebre Carnevale |
30 - Rugantino (Lazio - Roma)
- II nome deriva dal verbo romanesco «rugà», cioè «protestare con arroganza» e ne designa chiaramente il tipo. E' attaccabrighe, millantatore, poltrone e brutale; anche quando le busca conserva il suo carattere linguacciuto. Rugantino nasce come caricatura della gendarmeria, indossando anche gli abiti di un gendarme, per poi divenire cittadino comune, un popolano redento. Il vestiario comprende cappello alto, tipo gendarme, giacca lunga orlata di giallo, panciotto e pantaloni rossi, scarpe con fibbia. |
31 - Meo Patacca (Lazio - Roma)
- È spiritoso e impertinente, ma buono di cuore.
Vuole sempre avere ragione, è spavaldo e coraggioso e spesso usa il bastone. Attaccabrighe, nonché incline alla rissa e allo scontro. È il classico esempio del bullo di quartiere. Adora utilizzare la fionda come arma e non si separa mai dal suo coltello, parla in dialetto romanesco ed ha un carattere un po’ difficile e scontroso ma riscuote sempre grande simpatia. Il suo nome deriva dalla “patacca” ossia la misera paga del soldato (corrispondente a cinque carlini) e rappresenta il quartiere di Trastevere, il più popolare di Roma. La prima volta che fa la sua comparsa è nel 600' in un poema di Giuseppe Berneri, dove impersona un soldato, sempre pronto a battersi. Indossa un panciotto allacciato di lato, con una fascia in vita, un fazzoletto legato al collo o grande fiocco appuntato al panciotto, in testa un berretto o una retina calzati all’indietro. I pantaloni sono stretti al ginocchio. Meo Patacca è la maschera che nella Commedia dell’Arte rappresenta, insieme a Rugantino, la città di Roma. I due personaggi, sono accomunati dalle loro origini e dal loro essere attaccabrighe. Rugantino è noto per essere abile con la spada e con le parole, mentre Meo Patacca usa spesso il bastone ed è molte volte rappresentato con un fiasco di vino in mano. |
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Pulcinella
(Campania - Napoli) - Il carattere del personaggio è
composito: è indolente e malinconico, buono ma egoista, scansafatiche, mangiatore ed ubriacone, bastonato e bastonatore. La sua tendenza ad abbandonarsi ad atteggiamenti spesso riprovevoli è comunque riscattata dall'indole di popolano che ha una semplice ed ottimistica visione della vita. Sa cantare dolcemente e prendere la vita con filosofia. Tra i vari costumi assunti, tipico è quello bianco e la mezza maschera nera solcata di rughe, dal naso adunco; porta il cappello a pan di zucchero, il camiciotto ed ampi calzoni bianchi.
Famoso e conosciuto da tutti il detto:
"il segreto di Pulcinella".
Stralcio dal Corso di Storia delle Trad. Popolari tenuto dal Prof. Dr. Vincenzo De Rosa alla Unitre Milano - anno accad. 1999/2000: Pulcinella, maschera tipica del teatro popolare napoletano che nasce tra la metà e la fine del 1500. Il nome, di origine incerta, sembra derivi - secondo l'ipotesi più attendibile - dal napoletano "Puliciniello" (piccolo pulcino) e questo forse spiegherebbe il naso adunco, la voce chioccia e la deambulazione goffa e ondulante. Una congettura è anche la sua presunta discendenza da Macco, personaggio delle Atellane. A partire dal Seicento, fino alla fine dell'Ottocento, è stato uno dei protagonisti di primo piano del teatro napoletano. Nel Seicento era già vestito di bianco; il cappello in un primo momento a larghe tese rialzate sui lati, divenne poi a forma di pan di zucchero; da sempre, (molto) tipica, la mezza maschera nera solcata da numerose rughe. In Francia, verso la fine del Seicento, solo per un brevissimo, periodo (quattro, cinque anni) il costume divenne multicolore (probabilmente per esigenze sceniche). Legato ad alcuni suoi interpreti di altissimo livello, da Silvio Fiorillo ad Andrea Calcese, fino alla famiglia Cammarano (nonno, padre e figlio) da Pasquale Altavilla fino alla famiglia dei Petito (nonno, padre e figlio) cominciò il lento declino e poi la sua scomparsa con la loro scomparsa, privi come erano i testi delle cosiddette "pulcinellate" del grande contributo di recitazione di questi grandi interpreti. Ha vissuto ancora qualche decennio felice alla fine dell'Ottocento e agli inizi del Novecento nei testi teatrali di Eduardo Scarpetta oltre che nelle sue magistrali interpretazioni. Ai giorni nostri, salvo sporadiche riprese teatrali, come quelle di Eduardo De Filippo e, più avanti ancora, di Achille Millo, esso vive soltanto nei teatrini di periferia o nei baracchini dei burattinai. La patria di Pulcinella forse è stata il mondo. Anche fuori Napoli, la fortuna di questa maschera è stata notevole: tra la metà e la fine del Seicento comparvero, prima a Norimberga e poi a Francoforte e Berlino, alcuni "Polizenelle" italiani; e ancor prima ve ne erano stati in Francia, "Polichinelle" e più tardi in Spagna, "Pulcinelo" e addirittura in Inghilterra, "Punch". Non è facile delineare il personaggio, che si mostra ora sciocco ora scaltro, ora vinto ora vincente e giustiziere e tutto questo ha contribuito a dare dello stesso delle definizioni non sempre precise. Come dato molto superficiale, si può dire che nelle più diverse situazioni, la base del suo "esser comico" sia sempre intriso di una umanità dolente e al tempo stesso spensierata e leggera che ne fa il simbolo stesso del popolo napoletano. Pulcinella, nell'immaginario è come Faust, come Don Giovanni: un mistero e un mito. Approfondite riflessioni su questo personaggio (ancor prima che maschera) cominciano con Jacques Callot e si approfondiscono con Moliere (J. B. Poquelin), con Voltaire (F. M. Aronet), con D. Diredot, con J. W. Goethe, perché l'Illuminismo coglie in lui la civiltà dell'ironia, l'autonomia di pensiero, la satira politica, la dissacrazione del "Potere". Addirittura essi si accorgono che Pulcinella, con un buon anticipo sullo stesso movimento illuminista aveva intrapreso memorabili battaglie: contro l'ottusità della scuola, contro l'inferiorità della donna, contro la pena di morte, contro la schiavitù, per l'emancipazione dei più deboli, per la libertà del cultura. Prima che storici e filosofi come H. Reich o B. Croce, ne ricercassero origini e significati già musicisti, pittori e poeti avevano aperto nuove vie alla conoscenza di questo personaggio. Quando I. Stravinskij creò il suo "Pulcinella" alle spalle aveva un certo D. Cimarosa e una tale G.B. Lulli, ovvero ancora C. Debussy e S. Rachmaninov. Il "Pulcinella" di J. Fragonard, di G.B. Tiepolo, di F. Goya, di E. Manet, anticipa quello di P. Picasso; così come la poesia di H. Fielding, di &. Belli, di C. Porta anticipa la poesia di L. Bovio. Dunque, quando da fonti così diverse e lontane tra di loro si ricava il profilo di questa maschera messa in rapporto con temi universali come la cultura, il linguaggio, l'emarginazione, la donna, la storia, il Cristo, si deve dedurre che essa non è più una "maschera" ma "personaggio metastorico", che la sua patria non è Napoli ma il mondo. Napoli, con le sue caratteristiche etniche, fondate sulla scienza del probabile, su quello che può succedere, che forse succederà, sulla consapevolezza del destino, sull'ironia e l'autoironia, gli ha fornito solo gli strumenti adatti per interpretare se stessa. L'universalità di Pulcinella è anche il suo miracolo: rimane se stesso, sopravvive nel tempo, in tutte le culture che immedesima. E rimane sempre il suo "dubbio", che egli trasmette continuamente all'interlocutore che gli è di fronte:...e'... pecché? Stralcio dal libro "Maschere Veneziane e della commedia dell'arte" - Arsenale Editore - S. Giov. Lupatoto VR - 2012 È la maschera napoletana per eccellenza, originaria, benché esistano opinioni diverse, dalla Campania, regione ricca di tradizioni comiche. Ad Atella infatti sono nate le farse con i primi tipi fissi, vere maschere in nuce. E proprio a questi Maccus, Pappus, Bucco e Dossenus si rifa il personaggio di Pulcinella, spesso gobbo, come Dossenus, col naso a becco, analogo a quello di Maccus, la bocca gigantesca di Bucco e la fame inestinguibile di Pappus. Le caratteristiche fisionomiche lo rendono simile ad un gallo (il naso a becco era definito dagli antichi pullus gallinaceus) e questo, certo, fa avanzare una possibile ipotesi etimologica da una corruzione dialettale di "pullicino", pulcino. Nasuto, con la voce chioccia, buffone sciocco, cerretano fallito, scansafatiche, saltimbanco e acrobata, così appare in molti canovacci e proprio di questo Pulcinella si innamora Giandomenico Tiepolo che lo ritrae, moltiplicandolo a iosa sulle pareti e sui soffitti della villa dì Zianigo. |
33
- Scaramuccia
(Campania - Napoli) - Maschera di origine napoletana,
ha per costume il berretto nero alla basca, la giubba corta cinturata con colletto alla Stuarda; sotto un'ampia casacca, calzoni a metà ginocchio, completati da lunghe calze. È un tipo spaccone, ma, in realtà, vile e silenzioso, incassatore di botte e scansafatiche eccezionale. |
34 -
Tartaglia
(Campania - Napoli) - Maschera della Commedia dell'Arte di origine napoletana. Prese il nome di Tartaglia dalla balbuzie che la distingueva. Si prestò ad impersonare ora il servo astuto, ora il pedante, ora l'avvocato intrigante, ora lo speziale. E' una maschera spassosa e ridanciana e non riveste mai parti tristi o tragiche. Celebre Tartaglia fu il comico napoletano Nicola Cioppo, con il quale deve essere ricordato il suo successore Agostino Fiorilli. |
35 - Farinella (Puglia - Putignano)
- Maschera pugliese tipica del Carnevale di Putignano. Il suo nome è preso in prestito dal piatto simbolo della cucina putignanese: farina finissima ricavata da ceci e orzo prima abbrustoliti poi ridotti in polvere dentro piccoli mortai di pietra e destinata al connubio con sughi, olio o fichi freschi. Tipica del luogo, incarna il carattere delle genti del posto. La Maschera viene oggi rappresentata con un abito a toppe multicolore ed un cappello che ricorda quello di un giullare; porta scarpette di stoffa e al collo una collarina di colore giallo. In passato i colori caratterizzanti erano invece il rosso e il blu, simboli della città, ed il suo cappello presentava tre punte, allegoria dei tre colli sui quali sorge Putignano. Ha occhi piccoli e vispi e un’aria decisamente furbetta… Spesso è raffigurato nell’atto di mettere pace tra un cane e un gatto, metafora della bonaria litigiosità esistente tra i cittadini di Putignano. Prese vita negli anni Cinquanta dalla fantasia del grafico Domenico Castellano che vide, in un cibo tipico della città, l’esempio più calzante per rappresentare i putignanesi nella tradizione carnevalesca. |
36 - Giangurgolo (Calabria)
- Sembra voglia dire Gianni-gola-piena, o Gianni-ingordo. È un guascone che veste alla spagnola ed ama forbire il suo dialetto calabrese con intercalari spagnoleschi. Alla bisogna sa fare i più diversi mestieri, in perenne dissidio con la fame e l'ingordigia, sempre insaziabile di cibo. In particolare di maccheroni che sono la vivanda per cui stravede, specie quando sono ben fumanti. Al tempo stesso è un fanfarone, una persona dedita alle chiacchiere; Intorno al ‘600 il suo intento primario era quello di prendersi gioco dei dominatori spagnoli e aragonesi anche se viene spesso deriso per il suo aspetto fisico. È pronto, a parole, a dare bastonate sulle spalle, a rompere teste, a fracassare ossa ed a ridurre uomini interi in frattaglie; salvo poi a darsela a gambe se qualcuno mostra di prenderlo in parola e di abbozzare una reazione: è soprattutto pusillanime. Si ritiene un dongiovanni, o per meglio dire, ama provarsi nell'arte di sedurre le «giovin donzelle» ma non viene mai corrisposto, perché non preso sul serio; anzi quasi sempre viene canzonato dalle stesse donnette e finisce col ritirarsi scornato e con la coda fra le gambe. Maschera tipica calabrese, è vestita con marsina e pantaloni gialli rigati di rosso, porta un corsetto rosso, e un lungo spadone che tiene legato ad una larga bandoliera, ma che non usa mai in quanto che la sua... ferocia si esprime solo a parole, senza passare mai a vie di fatto. Porta un copricapo a cono, ornato, talvolta, da una lunga piuma di... pavone. Le origini del Giangùrgolo vengono fatte risalire alla metà del XVI secolo. |
37 - Beppe Nappa (Sicilia - Sciacca)
- II suo nome, che deriva dal siciliano «Peppì» (Giuseppe) e «nappa» (toppa dei calzoni), indica figurativamente «uomo da nulla». Beppe Nappa, nasce, all’incirca, nella seconda metà del XVI secolo. È la maschera simbolo del Carnevale di Sciacca che annualmente gli dedica un carro in occasione della tradizionale sfilata. Non porta maschera, ed è vestito con un abito tutto bianco che si può confondere con quello di Pierrot. Ha uno spiccato amore per le danze e per le piroette. Non è troppo furbo; serve qualche vecchio barone, ma provoca continuamente incidenti a causa della sua dabbenaggine. |
38 - Il Capitano (in generale) - Questa maschera ha le sue radici nel teatro romano; si
pensi al Miles gloriosus dì Plauto. Soldato spaccone e vanaglorioso, millantatore, derivato da tutti quegli avventurieri che infestarono l'Italia, è anche la parodia vivente del dominatore spagnolo che fece realmente di tutto per conquistarsi questa fama deteriore. Le grandi imprese e le "guasconate", nel suo linguaggio denso di spagnolismi, facilmente accessibili, anche all'orecchio poco abituato alla frequentazione di questa lingua, acquistano lo stesso valore delle imprese di don Chisciotte della Mancia. La sua divisa è di colori sgargianti: un abito a strisce variopinte con bottoni dorati, un cappello piumato e un pauroso spadone con qualche inevitabile ruggine o ragnatela, unici trofei da esibire dei suoi sanguinosi duelli. Porta raramente la maschera. I nomi sono sempre roboanti e terrificanti: Capitan Spaventa, Spezzaferro o Fracasso. Oppure si attinge alle lontane origini spagnole: Matamoros, Sangre y Fuego. È un innamorato esigente, spesso vittima di raggiri a cui risponde sguainando la spada, senza mai spargere sangue se non il proprio o quello dell'attore che lo impersonava sulle scene, ad opera di spettatori, solitamente spagnoli, che mostravano scarso gradimento per quella offensiva macchietta. Divertentissimi i contrasti con gli zanni, dove si esibisce nelle sue rodomontades, lunghe tirate, in cui elenca le imprese militari alle quali nessuno, però, presta fede. 38/1 - Capitan Spezzaferro - Maschera molto popolare del teatro italiano del 17° sec., rappresenta una variante di Capitan Spaventa e Scaramuccia. Come questi, professa coraggio e valore ma si dimostra vile e pusillanime nei momenti di pericolo. Stralcio dal libro "Maschere Veneziane e della commedia dell'arte" - Arsenale Editore - S. Giov. Lupatoto VR - 2012 |
39 - Colombina (anche sotto altri nomi e regioni) - E' la maliziosa e vezzosa servetta o spesso anche nipote del protagonista maschile della Commedia dell'Arte, personaggio comico non sempre specchio di virtù, scaturito da un mondo popolare come Arlecchino, suo fedele compagno d'avventure e talvolta suo sconsolato amante. Quando compare sul palcoscenico si fa notare per quelle sue innate doti di spigliatezza, civetteria ed astuzia tipicamente femminile. Rappresenta la ragazza smaliziata e onesta allo stesso tempo, esperta nell'arte della seduzione e sicura di sé. E' conosciuta anche con altri nomi: Corallina, Arlecchina, Ricciolina, Camilla e Lisetta e sempre più affinandosi, seguendo la moda francese, diventa l'elegante Marionette nella Vedova scaltra di Carlo Goldoni. Il vestito è semplice, a volte a toppe colorate come quello di Arlecchino, rifinito con una graziosa cuffietta bianca e un grembiule della stessa tinta. Altre volte è in tutto simile a quello delle servette settecentesche. Porta raramente la maschera, si esprime in vari dialetti, ma preferisce il veneziano o il toscano. Isabella Biancolelli Franchini la impersonò più volte sul palcoscenico, ma fu Caterina, figlia dell'Arlecchino Domenico Biancolelli, a darle una particolare configurazione che avrebbe lasciato una traccia indelebile nella storia del teatro. Fonti:
libro "Maschere Veneziane e della commedia dell'arte"
- Arsenale Editore - S. Giov. Lupatoto VR - 2012 e altre |
40 - Isabella -
Come altre maschere femminili della Commedia dell'arte, ricopriva il ruolo di "amorosa" o di pastorella, indossando naturalmente costumi diversi a seconda del ruolo. |
41 - La Cantatrice -
Personaggio di contorno della commedia dell'arte, veniva utilizzato più negli intervalli che durante la rappresentazione vera e propria. |
42 - Il Farmacista -
Non è propriamente una maschera, ma una arguta e spassosa caricatura come quella del Notaio e del Dottore, tutte professioni mai veramente apprezzate su cui il popolo riversava astio e risentimento, con l'ironia e il sarcasmo. |
43 - Il Notaio - Più
che una maschera è una caricatura del ricco, saccente e petulante
custode della legge. |
44 - Il Dottore (nomi differenti) - Non è propriamente una maschera, ma una
arguta e spassosa caricatura. |
Le Maschere |
Nel
teatro greco la maschera nascondeva quasi totalmente il capo dell'attore
che faceva sentire la sua voce attraverso un'apertura studiata apposta per un'emissione amplificata. La forte caratterizzazione della maschera mediante un simbolico impiego del colore (bianco per le parti femminili, bruno per quelle maschili) permetteva allo spettatore di intendere più facilmente il dramma. |
Le Maschere della Commedia dell'Arte |
Le maschere soprattutto nella Commedia dell'arte trovano il loro grande
momento. Nella commedia dell'arte la maschera è un Tipo o personaggio fisso, con caratteristiche somatiche o psicologiche ben determinate, contraddistinto da un costume, che ritorna in commedie diverse anche con attori diversi, in genere tipico di una particolare regione: Gianduia è la maschera di Torino, Pulcinella la maschera di Napoli, ecc.. Rappresentarono la principale ragione del successo della Commedia dell'Arte, perché la tipizzazione dei soggetti fissi e ricorrenti corrispondeva alle attese più profonde dello spettatore (cioè dell'immaginario della gente) come apertamente si era verificato in ogni epoca precedente al sorgere di questo fenomeno. Le maschere fondamentali, sulle quali si incardinava la Commedia dell'Arte, erano quattro (la tetrarchia): • il Magnifico (Pantalone); • il Dottore (chiamato in un primo tempo Graziano, poi Baloard e infine Balanzone); • il primo Zanni (che di solito era anche il capocomico); • il secondo Zanni. I primi due (Pantalone e Balanzone) sono chiamati genericamente "Vecchi" e presentano alcune caratteristiche comuni, come gli stessi vizi e difetti; il comune destino è di andare incontro ad una serie di smacchi, di f iguracee, di contraddizioni. • Pantalone è il vecchio mercante veneziano, sospettoso, ricco ma avaro, deriso per i trucchi che inventa per maritare le sue figlie o nipoti senza sborsare denari per la dote, oppure cercando di risparmiare quanto più possibile, deriso per le sue velleità amorose con donne giovanissime o non più giovanissime ma che fossero almeno ricche. Quando, vittima di raggiri e di inganni, si accorge che forse vale la pena di esserlo, diventa anche saggio e umano ("l'Avaro" di Moliere). • Balanzone, il vecchio giurista, il dottore, che ostenta in modo saccente un sapere caotico (con ragionamenti a volte senza senso) che investe tutti con eloquenza inarrestabile; non è capace di ascoltare per cui, col fiume di parole che riversa sugli altri, non è in grado di sentire alcune cose, che gli vengono dette, che poi sarà costretto a fare e che si rifiuterà, esponendosi a degli smacchi. I secondi due (gli Zanni) erano originariamente i villani rozzi, poveri, ignoranti, venuti dalla campagna a fare i servi in città (a volte avevano l'accento delle valli bergamasche). Queste maschere sono definite come tali addirittura prima della formazione della Commedia dell'Arte (di qui il suo nome primitivo di "Comedia De' Zani") e già agivano in piccoli spettacoli, che altro non erano se non dei dialoghi buffi, pantomime e acrobazie, simili agli odierni numeri dei clown dei circhi. Gli Zanni, personaggio che impersona il servo buffone al quale si richiede in continuazione la trovata comica, il lazzo. Il termine deriva da un diminutivo di Giovanni, nome del Rinascimento, degli uomini di fatica: Arlecchino, Brighella, Gianduia, Meneghino, Pulcinella, Mezzettino, Scapino (figlio di Brighella; una commedia di Molière, "Le furberie di Scapino"- 1671 rese celebre la maschera), Tartaglia, Trappolino e Beltrame, Truffaldino. Il personaggio si può suddividere in: • primo Zanni (che di solito era anche il capocomico): il tipo furbo, per esempio Brighella. • secondo Zanni: il tipo sciocco, per esempio Arlecchino. La distinzione non era sempre rigida e rigorosa e quindi le caratteristiche dei due, spesso, tendono a fondersi, dando così origine ad un misto di scaltrezza e balordaggine, di beffatore e beffato. Oltre alle maschere citate (la tetrarchia), ve ne sono anche altre: • Il Capitano (rappresentante la figura del militare fanfarone e pavido, ma che prevarica e tiranneggia tutti, soltanto perché indossa la divisa e magari è armato. Racconta episodi della sua vita, inesistenti, è un mitòmane, inventa, vanaglorioso com'è, soprattutto quando deve impressionare belle donne. Celebri: Capitan Fracassa, Spaventa, Matamoros, Spezzaferr). Interminabile è la lista. • La Servetta o "Fantesca" (originariamente "Zagna" cioè la donna degli Zanni), una contadinotta prosperosa, furba, sveglia, piccante e maliziosa (soprattutto con i "Vecchi") dalla lingua sciolta, che spesso parla toscano, se non in Veneto: Colombina, Franceschina, Corallina. • Gli Innamorati che nascono non come maschere ma come figure di palcoscenico man mano che si susseguono gli intrecci delle commedie e sono particolarmente utili per lo sviluppo dell'intrigo. Sono i tipi più vicini alla letteratura che alla farsa che si recita, parlano quasi sempre in toscano, sono di bell'aspetto, eleganti, non portano mai la maschera. I nomi più ricorrenti sono: Cinzio, Fabrizio, Flavio, Leandro, Orazio, Ottavio, Valerio, Lelio, Florindo per gli uomini, e Angelica, Ardelia, Aurelia, Flaminia, Isabella, Lucilia, Lavinia, Rosaura, Giacometta, Ricciulina, per le donne. • I "generici", come ad esempio: il Notaio, il Medico, il Boia, il Bravo, il Marinaio, il Corriere, il Mercante (quasi sempre turco o comunque sempre levantino), il Contadino stupido, e poi gli Scrocconi, gli Schiavi, gli Sbirri, gli Ebrei, i Pazzi. |
Stralcio dal Corso di Storia delle Trad. Pop. tenuto dal Prof. Dr. Vincenzo De Rosa alla Unitre di Milano - anno accad. 1999/2000 |
L'IMPROVVISAZIONE |
Molti erano gli scenari sui quali i Comici dell'Arte erano tenuti ad
improvvisare. Fonti, le più svariate: racconti, commedie classiche, letteratura drammatica popolare, leggende, fatti di cronaca, eccetera. L'imitazione del modello è estremamente libera ed è concepita solo in funzione dello spettacolo che si vuole dare, del numero di attori disponibili e delle loro personali caratteristiche. II repertorio prevalente e di migliore riuscita è quello di tipo comico: è una girandola di effetti, ottenuti nei modi più svariati (situazioni grottesche, atteggiamenti mimici, equivoci, giochi di parole, uso di dialetti e di linguaggi maccheronici, costumi, maschere, travestimenti, turpiloquio, oscenità). Quest'ultima è rimasta, anzi, come una caratteristica della Commedia dell'Arte che ha avuto diversi censori. In realtà, questa scurrilità di linguaggio o di atteggiamenti non aveva alcunché di morboso ed era piuttosto la testimonianza di un'ingenua franchezza, spesso un po' grossolana ma piena di un'autentica e disinibita capacità di espressione; a volte usata come ammiccante coinvolgimento degli spettatori. Nella maggior parte dei casi, la vicenda consisteva in un intreccio amoroso multiplo, caratterizzato dalle ingerenze di qualche "geloso", dagli intrighi dei servi, a volte voluti, a volte per sbaglio, e articolato in una serie di equivoci ed ostacoli che ne fanno allungare nel tempo l'esito positivo, magari fino al termine della rappresentazione. La complessità del lavoro di questi comici è che la loro improvvisazione non poteva essere affidata esclusivamente e sempre all'estro dell'invenzione momentanea ma si fondava sulla specializzazione nel rappresentare un unico tipo che si sentiva particolarmente "congeniale" e con il quale si tendeva a identificarsi permanentemente. (Tale Giovanni Zanotti recitò il ruolo dell'innamorato Ottavio fino a 70 anni e fu detto "il Vecchio Ottavio", secondo l'uso comune di chiamare l'attore con il nome del tipo che di solito interpretava). Ovviamente questa specializzazione comportava la formazione di un repertorio personale dell'attore, in funzione dello stile della propria maschera, dal quale egli era in grado di attingere in qualsiasi momento e in qualsiasi occasione. (Nella concezione moderna, il lavoro dell'attore di teatro è caratterizzato fondamentalmente dall'esigenza di dare vita a diversi personaggi, dei diversi testi che egli è chiamato ad interpretare). L'improvvisazione impone un lungo e impegnativo tirocinio, durante il quale il Commediante dell'Arte si forma un certo modo di agire, di muoversi, di parlare, quasi di pensare, secondo le esigenze del tipo che sente di voler interpretare e manda a memoria battute, monologhi, dialoghi, filastrocche che poi userà sulla scena. I "Capitani" raccoglievano cognizioni geografiche e mitologiche con cui infarcivano le loro vanagloriose trovate, sulle proprie mirabolanti avventure; gli "Innamorati" leggevano libri in lingua toscana per parlarla bene e poi versi, recitando prosa amorosa e retorica; il "Medico", il "Notaio", raccoglievano, dovunque possibile, cognizioni professionali da sciorinare durante le appresentazioni, per rendersi credibili. II Comico dell'Arte è dunque un virtuoso, che unisce efficacemente un lungo tirocinio di perfezionamento all'estro dell'improvvisazione pura e il tutto costituisce un'unità di stile e una freschezza espressiva, che dà allo spettatore la sensazione che il tutto sia frutto solo dell'invenzione del momento (anche oggi abbiamo attori che con un duro lavoro di preparazione e un alto livello di professionalità danno la sensazione di improvvisare al momento quello che recitano). Sentirsi svincolato da un testo, identificarsi con la propria maschera, rapportarsi non prevedibilmente con i propri compagni di lavoro, sono elementi che consentono una capacità sempre nuova di meraviglie e di divertimenti, libertà di ritmo, libertà di fantasia e di contatto vero con il pubblico, per cui anche la ripetizione diventa un vero e proprio atto creativo estemporaneo. I Comici italiani sono stati geniali perfezionatori di tutti gli elementi visivi della recitazione e di ogni genere di movimento scenico. Alcuni studiosi hanno detto che la Commedia dell'Arte è una sorta di libretto d'opera, nel quale la mimica è ciò che nella lirica è la musica. Anche se leggermente retorico questo giudizio, resta comunque il dato di fatto che, con l'uso delle maschere, tale mimica impegna tutto il corpo ad eccezione del viso; questo corrisponde ad una felicissima intuizione teatrale perché la maschera intensifica naturalmente sia lo sforzo espressivo di chi sta recitando sia, con la sua stessa "fissità", concentra l'attenzione dello spettatore sul senso d'ogni minimo movimento e sulla parola, sull'intonazione della voce. (Al contrario di quanto accade oggi in alcune prestazioni sceniche, dove l'attore, a volte più per pigrizia che per esigenze espressive contenute nel testo che sta recitando, spesso si affida ad un gioco fisiognomico che va completamente perduto per la maggior parte degli spettatori, soprattutto quelli dalla quinta fila della platea in su). Molte di queste tecniche mimiche divennero dei pezzi classici tradizionali come, per esempio, quella della "camminata", della "riverenza", del "batòcio", del "sospiro", del "pianto", del "riso", della "soffiata di naso". Alla Commedia dell'Arte si deve anche la rivoluzionaria innovazione di far recitare le donne (ricordiamo che fino ad allora, 1577, erano uomini travestiti da donne che recitavano tutti i ruoli femminili). La prima grande attrice, diventata famosissima poi in tutta Europa, fu Isabella Andreini , il cui nome è rimasto nel personaggio omonimo da lei creato (Isabella). La tecnica dei Commedianti dell'Arte può definirsi il punto più alto dell'espressione scenica e dell'impegno narrativo di tutto il teatro occidentale. Essi furono capaci di creare una forma di spettacolo "totale", cioè che usava i motivi più importanti e più vitali di tutti i generi della rappresentazione, in una fusione divenuta leggendaria e che ha lasciato moltissime tracce nel teatro moderno e in tutte le altre arti sceniche. |
Storia della Commedia dell'Arte |
Espressione
nota universalmente e usata per definire un particolare genere teatrale
di origine italiana, la cui nascita si fa risalire convenzionalmente alla
metà del XVI secolo. Le caratteristiche sono almeno tre: 1 - La mancanza di un testo vero e proprio, sostituito da una semplice trama (detta anche, ......soggetto scenario, canovaccio); 2 - la riduzione di tutti i personaggi a tipi prestabiliti, fissi e ricorrenti, le cosiddette ......"maschere"; 3 - il particolare valore che assume la tecnica dell'attore, chiamato non più ad interpretare ..... un testo, ma a creare direttamente lo spettacolo, attraverso il proprio virtuosismo ..... personale. La caratteristica prevalente di questi spettacoli è quella di rappresentazione comica. All'inizio della seconda metà del Seicento, la Commedia dell'Arte appare già perfetta nei suoi meccanismi. Le sue origini vengono spiegate da alcune teorie, non sempre tra loro concordanti. Una tesi sostiene essere la prosecuzione di forme comiche del teatro romano e pre-romano ed è basata su generiche analogie, con riferimento ai tipi (quattro) della Commedia atellana (forma primitiva di teatro comico popolare originario degli Oschi (Campani), caratterizzata da vivace realismo e dalla presenza di maschere fisse (Maccus, Baccus, Pappus, Dossenus). Introdotta a Roma nel III secolo a.C., in un paio di secoli acquisì forma e dignità letteraria fino a costituire il pezzo finale (exodium) delle tragedie di quell'epoca) o su accostamenti etimologici (non del tutto esatti) come quello del nome "Zanni" con i "Sanniones" (buffoni) romani. Un'altra tesi sostiene essere la traduzione della commedia erudita del Rinascimento in termini popolari (cioè comprensibili dalla gente comune). Indubbiamente ci sono somiglianze di tipi e di intreccio, ma queste non bastano a giustificare la rivoluzione stilistica del passaggio di questi elementi dal dominio della letteratura a quello delle maschere e della improvvisazione nella recitazione (recitazione a braccio); del resto, esistevano già una tradizione ed una letteratura drammatica di ispirazione popolare. Anche l'uso del dialetto fu adottato dai comici, non come modo di identificare un ambiente o individuare un personaggio, ma semplicemente come elemento di varietà dello spettacolo e di sottolineatura e valorizzazione espressiva dell'attore. Risulta evidente che ci furono quasi certamente condizioni storiche sfavorevoli ad un teatro di impegno e di contenuti (morali e polemici) e questo determinò, in Italia, lo sviluppo delle maschere e della recitazione improvvisata. In Inghilterra, Spagna e Francia, dove si erano formate le grandi monarchie, basate sulle nuove classi borghesi emergenti, quindi con la formazione di una coscienza di base collettiva e di comuni interessi sociali, morali e politici, tale fenomeno storico aveva avuto i suoi riflessi anche nel mondo del teatro; riflessi che vertevano sulla formazione di un repertorio (scritto) corrispondente a tali orientamenti culturali di tipo unitario che compagnie teatrali, sovvenzionate dalle Corti, potevano rappresentare di fronte a tutta una "nazione". In Italia, la situazione era invece caratterizzata dall'esasperato frazionamento politico, dai continui conflitti, dagli equilibri precari, dalle invasioni straniere, dai continui mutamenti di Poteri e degli spazi e dei livelli di libertà. In tale clima di sfrenato individualismo, in un'atmosfera di intrighi e congiure, il passare semplicemente da una città all'altra vicina, bastava a mettere in pericolo la compagnia che non avesse saputo adattare il proprio repertorio ad un orientamento politico magari opposto a quello precedente. La situazione storica italiana rinascimentale è un crogiuolo nel quale trova largo spazio di sviluppo l'improvvisazione per la necessità di adattare ad ogni ambiente l'azione scenica concepita su uno schema polivalente e buono per tutte circostanze. Tale improvvisazione è basata sia sulla rilevanza dell'espressione mimica, sia sulla comicità pura e di virtuosismo recitativo fine a se stesso, capaci di suscitare l'interesse e il divertimento senza pericolose complicazioni politiche e sociali. La Commedia dell'Arte deriva il proprio nome dall'ambiente nel quale si forma, che è quello dell'"incipiente professionismo organizzato" degli attori italiani di quel momento. Agli inizi del Cinquecento esiste ancora la figura del comico vagante che si esibisce da solo o, al limite, in un piccolo gruppo di colleghi che però si disperde subito dopo la recita. La sua attività è varia e frammentaria, recita in piazza, ora per fare il giullare, ora il banditore di merci (attuale testimonial televisivo) o banditore di pubbliche notizie, ora per allietare banchetti, ora per partecipare a recite di piccole commedie, a volte anche colte, messe in scena da dilettanti nelle corti o anche nelle accademie. Nei decenni successivi questi aggruppamenti saltuari e occasionali di attori assumono un carattere sempre più continuativo, organico, permanente fino alla formazione delle prime compagnie. Esiste un documento notarile del 25 febbraio 1545 dove, in Padova, si è costituita una compagnia italiana formata da un gruppo di attori veneti, che prevedeva l'impegno di un anno (con relativi compensi e penali in caso di mancanza). Da questo documento risulta che alcuni degli attori hanno un nome che fa riferimento esclusivamente alla loro specializzazione tecnica e alla maschera di tipo fisso. Gli attori sono tenuti a collaborare fra loro in un rapporto di "amor fraternal" e a "dar obedientia ad un capo" nel recitare le "su' comedie", fare cioè "tutto quelo che lu' comandarà" e in particolare "andare inventando come lu' comandarà sera per sera". Negli anni a seguire, si avrà la formazione di tante altre compagnie; esiste la documentazione del nascere della compagnia dei Gelosi, dei Confidenti, oltre quella dei Desiosi, degli Uniti, degli Accesi, dei Fedeli alle quali si deve il perfezionamento delle principali maschere e della recitazione all'improvviso. Dalla loro patria di origine, la Repubblica veneta, le Compagnie dei comici si spostano in tutta Europa; si hanno notizie certe di Compagnie italiane a Parigi, a Londra (addirittura nelle corti, su invito dei Sovrani dell'epoca: Luigi XIII, Elisabetta I), a Madrid, fino in Boemia, Polonia, Russia: ovunque incontrando straordinari successi e lasciando ampie tracce del loro passaggio. Tracce che, se in discreta misura si ritrovano in Inghilterra, nel teatro di Shakespeare, esercitano invece una profonda influenza in Francia, in quello di Moliere che da esse ne deriverà direttamente. Nel 1644 ricevono la denominazione ufficiale di "Comédiens du Roi de la Troupe Italienne" e qualche anno dopo queste loro posizioni verranno definite con regolamenti e leggi. Recitano in italiano e in francese al Palais Royal; alternano i loro spettacoli con quelli della Compagnia di Molière. Dopo molti anni, estremamente felici e densi di successi, inizia un periodo di alti e bassi, con alterne vicende, fatte di interruzioni per ragioni politiche e successive riprese per abrogazione dei provvedimenti subiti. Nel 1716 si riprende sotto la guida del più prestigioso attore del momento, tale Luigi Riccoboni e dello stesso Carlo Goldoni , condirettore di compagnia e poeta (questo da atti ufficiali). Ormai la Commedia dell'Arte sta per finire; l'atto ufficiale di morte è la fusione, nel 1801, con una compagnia francese che recitava nella Salle Feydeau. Il sopravvivere della Commedia dell'Arte nello spettacolo moderno merita un discorso a parte ... perché vi sono motivi vari e complessi. Forse i più diretti discendenti degli antichi comici possono considerarsi i clown del circo e alcuni attori del teatro dialettale o del teatro leggero. Molti attori, registi, scenografi hanno variamente sentito la loro influenza ma spesso le analogie e i riferimenti si sono arrestati alla superficie o hanno risentito di essere frutto di una falsa e malintesa ricostruzione intellettuale. La Commedia dell'Arte, per la sua stessa natura, è stato un fenomeno bellissimo, destinato a bruciarsi (quindi a finire) nell'atto stesso della rappresentazione, lasciandosi dietro un'eco, in parte inafferrabile e mai veramente riproducibile. |
Stralcio dal Corso di Storia delle Trad. Popolari tenuto dal Prof. Dr. Vincenzo De Rosa alla Unitre di Milano - anno acc. 1999/2000 |
LA MASCHERA (L'USO DI MASCHERARSI) | |
Con
questo termine si indica un volto finto, di vario materiale e fattura,
che si sovrappone al volto e che, sia esso umano, animalesco, diabolico, ha (e deve avere) tratti decisamente deformi e, non di rado, orripilanti. Viene usata sia a scopi magico-rituali, sia guerreschi, sia per finalità di spettacolo. Nella storia del Teatro, in particolare quella della Commedia dell'Arte, il termine assunse il significato di personaggio fisso, con caratteristiche somatiche, psicologiche particolari, le quali rimangono inalterate in opere teatrali diverse. L'uso della maschera, intesa nel significato proprio, ha origini antichissime e strettamente legate alle religioni primitive: più precisamente ai Riti stagionali, al culto degli Dei e dei Defunti, ai rituali dionisiaci (detti anche Baccanali; feste di tipo orgiastico, a cui partecipavano uomini e donne, consistenti in cortei rituali al suono di flauti e timpani, accompagnati da canti e danze sfrenate, fino al raggiungimento del furore estatico, per poi abbandonarsi ai più disparati accoppiamenti sessuali). Secondo i più accreditati studi etnologici; le maschere rituali si possono dividere in: • maschere da culto (che compredono, tra l'altro, i fantocci usati per esorcizzare i malati e quelle da porre sul viso dei morti, per consentire loro di comunicare con i viventi); • maschere di giustizia (quelle indossate da magistrati per emettere sentenze e rimanere anonimi o quelle a protezione di qualcuno o di qualcosa), quindi come funzione o sanzionatoria o di spauracchio. Le Maschere guerresche possono costituire una vera e propria difesa del viso, completate da corazze per il corpo (vedi: i Samurai giapponesi), oppure deviare l'attenzione dell'avversario ingannandolo o, più semplicemente, spaventandolo. |
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Teatro | |
Le maschere hanno origini decisamente sacrali e comunque quasi sempre
in rapporto con il mondo magico e soprannaturale, sempre con il mondo onirico e quello della fantasia. Alla Maschera è legata l'origine stessa del teatro, inteso come rappresentazione; indossando la maschera (cioè camuffondasi), l'attore s'immedesima nel personaggio mitico e gli spettatori riconoscono in lui, non tanto il dio stesso, quanto il carattere simbolico della divinità che dovrà rappresentare. Inoltre, risponde ad un'esigenza pratica, in quanto funziona come un megafono per ampliare il volume della voce dell'attore. In seguito la Maschera diviene sempre più un elemento di grande importanza nella "tipizzazione dei personaggi", in maniera che gli spettatori percepissero immediatamente il Ruolo e comprendessero la trama del dramma. Nel teatro greco, la Maschera, caratterizzata inizialmente da sembianze animalesche, diviene poi parte integrante del costume dell'attore; al tempo di Eschilo, Sofocle, Euripide, le maschere tipizzanti (cioè di tipo fisso) pare fossero oltre trenta. Soprattutto nella commedia le maschere si impongono con la loro espressività caricaturale: esse hanno dapprima lineamenti caricaturali e grotteschi poi sempre più caratterizzanti singole tipologie riscontrabili nella quotidianità. Anche i Romani imitarono i Greci nell'impiego della maschera di scena e il suo uso si estese sempre più durante l'Impero, con lo sviluppo della Pantomima (azione scenica costituita dai soli gesti del corpo, a volte di un attore, altre volte di più attori, spesso accompagnata dalla musica). La lenta trasformazione della Maschera e il progressivo distacco dalle forme arcaiche magico-rituali si manifestarono in pieno con i Mimoi "bizantini" che introdussero, in tutto il territorio dell'Impero romano, l'uso di cerimonie mascherate essenzialmente giocose. Il teatro sacro del Medioevo fa largo uso della Maschera, specialmente nelle rappresentazioni dei Misteri e delle Passioni; in genere, essa ha carattere demoniaco e l'etimologia del termine (Mascha = strega) ne chiarisce l'origine. Usata anche dai giullari medievali e più tardi nelle figure simboliche e allegoriche degli spettacoli rinascimentali. Dopo un lungo periodo di splendore nella Commedia dell'Arte, la Maschera scompare gradualmente nel teatro occidentale; ai nostri giorni, perduto il suo carattere simbolico, resta come ornamento del trucco e del costume, sopravvivendo nel Circo, nella danza e in alcune feste tradizionali in costume. La Maschera sopravvive invece, in maniera eccellente nel teatro orientale, sia in Giappone sia in Cina, non nella foggia tradizionale occidentale, ma come uso di trucco pesante, barbe di colori diversi a seconda del ruolo e l'uso di molte vernici per cambiare i tratti del volto. |
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Mascherarsi | |
L'uso di mascherarsi, già esistente nell'Antichità classica,
si rafforzò nel Medioevo, per, poi diffondersi, in occasione di feste particolari (soprattutto il Carnevale). Da Venezia, ove iniziarono nel secolo XIII (documentato da una menzione in una legge, del 1295), le Maschere si diffusero in Francia, quindi in Inghilterra (come attesta la diffusione del Masque, tipico spettacolo inglese del XVI e XVII secolo, concepito per un pubblico colto e destinato sovente a rappresentazione di corte con personaggi allegorici e messa in scena sfarzosa). Il costume in maschera (o la maschera) non è costume teatrale, se non occasionalmente; esso viene indossato da chiunque in occasione di feste, cortei, manifestazioni regionali o f olcloristiche. La Maschera, intesa nel significato di "tipo fisso", con costumi e con caratteristiche proprie (già presente nella Atellana), è una tipica manifestazione della Commedia dell'Arte. Non tutti gli studiosi sono d'accordo sull'origine delle maschere nella Commedia dell'Arte; secondo alcuni, esse non fioriscono per derivazione da forme teatrali antiche, ma per creazioni spontanee ed improvvise, in occasione di feste carnevalesche, di spettacoli di saltimbanchi o artisti di strada. Secondo altri, invece, l'origine della Maschera va ricercata in antiche forme di culto. Per Arlecchino, il riferimento ad origini rituali è quanto mai evidente; il nome stesso, da Hallequin o Alichino, non è che il sinonimo di Demonio e .. demoniaca era, all'origine, la maschera usata per il suo volto. Il costume a losanghe, a vivaci colori, di tipo primaverile, è legato a riti stagionali ed è preesistente alla Commedia dell'Arte. Prima ancora, come Zanni, cioè servitore, il suo costume era tutto bianco. Lo stesso può dirsi per Pulcinella, che Maurice Sand considera discendente diretto del Maccus delle commedie atellane, ma che, più probabilmente, è connesso come personaggio ad antichi riti legati alle stagioni; anche lo Zanni, il servo, pare discenda da personaggi che ruotano intorno alle figure del Carnevale. Come scrive Paolo Tosti nella "Origine del Teatro Italiano": "... il Zane esisteva nell'Italia Settentrionale fin da tempi molto antichi, come maschera carnevalesca di origine infernale e di carattere burlesco al tempo stesso..". Per identificare, con una certa immediatezza, i vari personaggi derivati dallo Zanne, la Commedia dell'Arte dette vita ad un colorito e vario mondo di servi, come Brighella, Pedrolino, ecc. La casacca sguarnita e completamente bianca del primo Zanne subì importanti traformazioni, si tinse, di volta in volta, di colori brillanti, si arricchì di guarnizioni varie. Dalla commedia erudita del Cinquecento, derivò poi la maschera del Dottore, originata dalla caricatura del "Pedante", mentre la lunga schiera dei "Capitani", secondo alcuni studiosi, aveva il suo prototipo nel personaggio delle commedie di Plauto, "Pirgopolinice". La Commedia dell'Arte sfruttò abilmente la truculenta, vanagloriosa, comica figura del Capitano per una pungente e gustosa satira del militarismo. Di consuetudine, i Capitani recitavano con il volto coperto da una maschera, che, per le sue implicazioni rituali e magiche, era all'origine di una bruttezza che rasentava l'orrido ma che, in seguito, ebbe il compito specifico di rendere riconoscibile il personaggio "cattivo". La fortuna delle varie maschere della Commedia dell'Arte fu affidata all'abilità degli attori che, rinunciando a vestire ogni sera i panni di un personaggio diverso, indossavano, per tutta la vita, il costume di una determinata maschera, immedesimandosi a tal punto nel personaggio stesso, da assumerne il nome anche nella vita pubblica e privata. Un esempio per tutti, è quello di un grande attore, Tiberio Fiorilli, noto al pubblico del suoi tempi unicamente come "Scaramuccia". Le maschere, che avevano raggiunto nella Commedia dell'Arte una tipizzazione così perfetta e che nel teatro del Settecento ricomparvero ingentilite nel repertorio di Carlo Goldoni e imbuffonite nel repertorio di Carlo Gozzi, una volta esaurito il loro compito nel teatro, si rifugiarono nel mondo dei burattini e poi vissero nelle mascherate carnevalesche dell'Ottocento. |
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Stralcio dal Corso di Storia delle Trad. Popolari tenuto dal Prof. Dr. Vincenzo De Rosa alla Unitre di Milano - anno accad. 1999/2000 |